Ci sono libri che potrebbero essere stati scritti ora o trecento anni fa. Libri che non mancano di modernità , eppure emanano un'aura di eterno.
Protagonisti sono una tigre e un gregge di pecore, archetipi della forza e della debolezza, che qui rappresentano anche un'allegoria del potere e del popolo.
La tigre è un leader, le pecore lo temono ma ne sono affascinate.
Rinchiuse in una miniera, si lasciano affabulare dalla tigre affamata e malvagia, che le aspetta fuori e trova ogni stratagemma per mangiarsele.
"Guardate i miei occhi! Può uno così bello essere cattivo?"
chiese la tigre.
L'affermazione non è logica, ma non è di logica che le pecore hanno bisogno. E così la prima pecora esce e viene divorata.
Seguiranno le altre: una mossa da pietà , una convinta delle rassicurazioni della tigre, una sedotta dalla promessa di denaro. Una alla volta, le pecore escono senza aver imparato la lezione, ogni volta incontro allo stesso destino.
Una alla volta, sfilano le debolezze umane di fronte al potere: il fascino, la credulità , la paura, l'avidità .
E poi la vanità , anche quella dell'intelletto, quando la tigre propone un'indovinello e le pecore, una alla volta, escono per dare la risposta, dimostrando al tempo stesso la loro furbizia e la loro stupidità .
Accanto allo stile testuale, distaccato e senza giudizi, proprio della favola, Fabian Negrin dipinge i protagonisti con tratti abili ed espressivi, valorizzati dall'utilizzo di un solo colore, nelle sue sfumature.
Le pecore hanno velli confusi tra loro, composti da tratti grossolani e ondivaghi: non si sa dove finisce una e dove inizia l'altra.
La tigre è finemente tratteggiata, istrionica, espressiva, capace di passare dall'arroganza a una (finta) disperazione, felina più che mai ma con posture decisamente umane.
E se alla fine la malvagia protagonista pagherà le sue malefatte, ciò che resta di L'indovinello della tigre è comunque il suo carisma di leader, insieme alla facilità con cui il suo popolo (e non solo il suo) si lascia affabulare.