Sono in genere due i modi in cui i bambini ingigantiscono le piccole sventure: le rendono tragiche, ma allo stesso tempo le rendono eroiche.
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Lo racconta in modo efficace e autentico Emma Adbåge in La ferita (link affiliato, per l'appunto), un albo edito da Camelozampa che conferma la capacità dell'autrice di leggere l'animo dei bambini, come già avevamo visto in Il regalo.
La narrazione, svolta in prima persona, inizia a scuola, dove il protagonista cade e si procura una ferita a un ginocchio. Come spesso accade, in questi casi, un evento del genere impressiona i bambini, ma li fa anche sentire importanti: le attenzioni puntate su di lui, il rosso del sangue, il rito della cura che termina con "il cerotto più grande della mia vita".
Se agli occhi di un adulto questa storia sembra piccola, forse quell'adulto ha scordato quelle sensazioni che ogni bambino conosce bene.
Adbåge dissemina qua e là , sempre con molta naturalezza, dettagli di quel filtro sulla realtà di cui solo l'infanzia è capace: quel "ho proprio dovuto togliere un angolino del cerotto per controllare", o il sollievo di quando il protagonista si sente dire che di quella ferita resterà una cicatrice.
Qualsiasi adulto spererebbe il contrario, ma per un bambino è diverso: quella ferita è un segno di coraggio, di eroismo, di una prova superata, di un'esperienza che lo rende più grande e importante.
Forse è questo uno dei tanti passi che ci fanno lasciare alle spalle l'infanzia: la voglia di cancellare le cicatrici, anziché portarle con fierezza. Forse è questa, una delle cose che da grandi dovremmo essere capaci di recuperare.
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