Vi è mai capitato di fronte uno di quei rompicapo che, per essere risolti, hanno bisogno di attivare il pensiero laterale? Cose del tipo "sposta tre bastoncini per ottenere il risultato esatto", o "unisci tutti i puntini usando solo cinque linee rette".
La chiave del pensiero creativo sta proprio nel saper uscire dai paletti del ragionamento consueto per trovare nuove vie inesplorate. È terribilmente difficile riuscirci. A volte, però, ai bambini viene più facile, ed è nostro compito di educatori conservare viva questa capacità.
Credo sia questa la chiave più importante delle avventure di Harold di Crockett Johnson (della prima, Harold e la matita viola, vi avevo già parlato qui), edite in Italia da Camelozampa e da poco arricchite da due nuovi titoli, La fiaba di Harold e Harold nello spazio: superare i limiti delle leggi fisiche, delle consuetudini, dell'atteso, per aprire il gioco e la narrazione a nuove possibilità.
I due nuovi titoli ricalcano la struttura del primo: Harold, il protagonista, disegna il mondo attorno a sé con la sua matita viola, e mentre lo disegna ne vive le avventure. Al di là dell'aspetto paradossale del meccanismo, ovvero il fatto che Harold renda materiali le cose che disegna, la narrazione è un'ottima metafora di ciò che normalmente accade nei giochi d'immaginazione dei bambini, capaci di cucinare aria, di cavalcare destrieri invisibili e combattere contro nemici inesistenti.
Ciò che rende ogni volta diversi i libri della saga è invece la capacità dell'autore di modificare ogni volta il meccanismo di creazione che dalla matita fa nascere i mondi in cui gioca Harold, in una logica illogica in cui il pensiero laterale prevale su ogni aspettativa.
La fiaba di Harold inizia in un giardino incantato. Nel giardino non c'è nulla, se non la riga di matita viola tracciata da Harold, e qui avviene il primo salto logico: Harold non deduce che quello non è un giardino, ma si chiede perché non vi cresca nulla. Lui ha deciso che quello è un giardino, quindi deve essere un giardino. E per risolvere questo mistero, fa visita al re (per farlo, naturalmente, disegnerà il castello, e anche il re).
La logica viene sovvertita più volte: il disegno non si limita a creare, ma cambia le proporzioni alle cose e anche i rapporti causa/conseguenza (dopo aver disegnato una tana di topolino gigante, che lo fa sembrare piccolo piccolo, Harold disegna una scala per fare in modo di essere alto "quattro gradini e mezzo, la sua statura normale).
Una delle mie sequenze preferite è quella che vede Harold uscire da un buco disegnato nel muro del castello per poi riempire quello stesso buco disegnandovi un orologio: pieni e vuoti sono sovvertiti; anche qui la logica prevalente è quella del disegno e della fantasia e non quella delle normali leggi fisiche.
Al termine della sua avventura, Harold ricrea di nuovo la propria casa, e perfino la poltrona della mamma, che però non vediamo: la mamma è nido, è rassicurante realtà, non può essere creata da una matita. C'è, ma è oltre il gioco.
Harold nello spazio, l'ultimo titolo uscito, aggiunge alla logica narrativa una novità grafica: lo sfondo nero.
È un'avventura notturna, al chiaro di luna (quella luna che Harold ama tanto), che però si fa buio quando Harold, nel bel mezzo del deserto, disegna un razzo e si lancia nello spazio.
Troviamo in questo punto una frase che rompe la serenità della prosa graffiando in modo curioso:
Poi gli venne in mente che il governo si divertiva un sacco nel deserto. Lanciava i razzi.
È la prima volta che Harold esce dal territorio dell'immaginazione bambina e fa irruzione nel mondo adulto. Lo fa con una spiegazione da bambino che ascolta le notizie e le capisce a modo suo, certamente, ma l'effetto resta straniante, e mi domando quanti bambini ne colgano il senso e in quanti modi possano elaborarlo.
È solo un attimo, poi Harold parte e il suo mondo torna ad essere semplicemente suo, governato soltanto dalle proprie leggi, tanto che per fare luce può decidere di accendere una seconda luna.
E quando disegna il suo atterraggio sul pianeta, il pianeta stesso si compone sotto i suoi piedi, man mano che camminando lo disegna.
È il viaggio spaziale che ogni bambino sa compiere: dentro quello spazio immaginato e creato nella propria mente, dietro i propri occhi.
Ed è questa la magia di ogni gioco fantastico: si può camminare saldamente a testa in giù anche su un pianeta che non esiste, purché si sia in grado di attraversare i confini che la nostra stessa logica ha costruito.
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