Si incontra sempre una certa distanza emotiva, nel raccontare i fatti storici.
La guerra, quella che si studia sui libri, appare sempre lontana, non solo nel tempo, ma soprattutto nei sentimenti. Le scelte di re, dittatori e presidenti non ci appaiono come materia viva e pulsante. Lo sono invece le singole guerre, quelle vissute dalla gente comune, le loro storie singole e singolari.
È forse questo il modo più efficace di raccontare l'Olocausto ai bambini, ed è quello che fa Antonio Ferrara, narratore con un occhio particolarmente sensibile sulla storia, con La guerra di Becky, edita per la collana Le Rane di Interlinea (sullo stesso tema e dello stesso editore, vi avevo già parlato di Il violino di Auschwitz).
Becky racconta le proprie vicende in prima persona: il suo è una sorta di diario, seppur non dichiarato.
La sua storia è quella di una famiglia ebrea che fugge dai bombardamenti su Milano e si rifugia nell'albergo di proprietà del padre a Meina, sul Lago Maggiore. Qui le SS imprigioneranno lei e altri ospiti ebrei dell'albergo. Becky racconta la reclusione, stipata con gli altri in una piccola stanza d'albergo, l'amicizia con un ragazzo, l'eccidio dei suoi compagni di prigionia, la fuga verso la Svizzera.
È la tragedia nota come Olocausto del Lago Maggiore, una delle più grandi stragi di ebrei in Italia.
È crudo La guerra di Becky, non fa sconti a chi legge.
Dietro a una sintassi semplice, con cui Ferrara dà voce alla ragazzina, nasconde verità difficili. Non tace la morte dell'amato cane, né quella di un amico che era diventato per lei un punto di riferimento.
Non scava in profondità , la voce di Becky: non ce n'è bisogno.
Sono già abbastanza intensi i fatti, nella loro esposizione più semplice e lineare, e l'espressione limpida dei suoi sentimenti di paura e di speranza.
A dare respiro a una narrazione così pregna di tensione, le illustrazioni dello stesso autore, che affiancano ognuno dei brevi 28 capitoli di cui si compone il romanzo: sono perlopiù dettagli e ritratti, quasi mai quadri più ampi, quasi a voler stringere il punto di vista sulle prospettive così ridotte di una bambina ebrea. I volti si fanno caricature, a esprimere la disumanità dei soldati da un lato, l'intensità delle vittime dall'altro.
C'è una lucida consapevolezza di sopravvissuta, nelle parole di Becky: un finale che non può dirsi lieto, ma che racconta di un mondo che quella follia l'ha superata e che forse, se ne manteniamo viva la memoria, saprà non ripeterla più.
0 commenti