L'inizio della primaria, per noi e il Piccolo T, è stata un'avventura bellissima: lui curioso ed entusiasta di imparare,
noi di vederlo crescere.
Poi, vabbe', ci sono i compiti.
Succede anche nelle migliori famiglie – vero? –, che per quanto un bimbo sia bravo, la sola idea di cominciare ad aprire i quaderni e sfoderare le matite lo trasformi istantaneamente in un mostriciattolo urlante, capace di inventare qualsiasi scusa per rimandare il temibile momento.
In Non ho fatto i compiti perché... (ed. Rizzoli), Davide Calì e Benjamin Chaud trasformano questo momento in un'incredibile avventura della fantasia.
Il libro comincia con la maestra che chiede al bambino perché non ha fatto i compiti.
Da qui, ha inizio una lunghissima carrellata di scuse molto fantasiose e molto poco plausibili.
Ogni pagina presenta una scusa diversa, e ogni scusa abbraccia ambiti, casistiche e protagonisti tra i più svariati. Sono coinvolti animali veri e immaginari, svolte imprevedibili della vita familiare, grandi imprese, catastrofi naturali.
L'illustrazione a piena pagina, dal gusto un po' rétro, amplifica con la sua ricchezza di dettagli la portata di ogni scena, rendendola ancora più assurda e incredibile.
L'immagine del protagonista, in divisa e cravatta come un perfetto scolaretto diligente (a me ricorda Leopardi alle prese con le sue "sudate carte"), contrasta con il suo spirito di raccontafrottole, così come i grandi eventi che gli impediscono di fare i compiti appaiono ancora più assurdi nel contesto di una casa molto classica, con mobili antichi a carta da parati.
Le parole del bambino appaiono come didascalie sotto le immagini a piena pagina, e con le immagini lavorano per arricchire la scena raccontata: la ridondanza è minima, e il più delle volte l'evento viene costruito soltanto dalla sinergia tra immagine e testo, ridotto all'essenza (non è chiaro quali siano i "problemi con le piante carnivore" finché non vediamo che le piante si stanno mangiando i membri della famiglia). In questo modo, le parole assumono una dimensione ironica ancora più potente.
Le scuse si susseguono una dopo l'altra.
Non è sempre chiaro se il ragazzo ne sceglie una sola, a caso (ad esclusione di incipit e finale, il libro può essere letto anche senza un ordine preciso: non c'è accumulo tra le diverse situazioni), o se ne inanella una dopo l'altra, forse perché la precedente non sembrava abbastanza convincente.
E in fondo, non ha nemmeno importanza.
Inaspettato e divertente il finale, che lascia spiazzati e, senza premiare le bugie del protagonista, riesce comunque a farci sorridere e a renderci simpatica, insieme a lui, anche la maestra.
È un libro che non mente al bambino: non gli dice che i compiti sono belli e divertenti. Lo aiuta però a sdrammatizzare l'impegno, a riderci sopra, a scoprire la bellezza della fantasia.
Mentre lo leggevo al Piccolo T, lui rideva a crepapelle, e gli veniva spontaneo arricchire i ritratti delle scuse con altri dettagli, o tratteggiando un inizio e una fine attorno al climax rappresentato.
Così, ho pensato di trasformare l'idea in un gioco, un gioco che avesse la fantasia come protagonista.
Ho stampato un po' di parole a caso: qualche verbo, parecchi sostantivi, alcuni aggettivi che potessero trasformare l'oggetto in qualcosa di fantastico, come "gigante" e "minuscolo".
Insieme al Piccolo T, ho ritagliato le parole e ripiegato i bigliettini.
Ne pescavamo tre per volta e a partire dalle tre parole pescate inventavamo a turno una scusa per non avere fatto i compiti.
A voi, ad esempio, è mai capitato che proprio fuori da scuola un mago vi avesse toccato il naso e trasformato in un cartone animato?
Avvertenze: le scuse sono esclusivamente per uso domestico. Vietato portarle davvero a scuola.
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